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“Io sono pace”: il coraggio dell’umanità che si fa prossimità

“Io sono pace”: il coraggio dell’umanità che si fa prossimità 04/08/2025

Il progetto estivo di Migrantesliberi trasforma relazioni e piazze in luoghi di cura condivisa: accoglienza, integrazione e responsabilità come atti rivoluzionari e spirituali «Ogni persona si realizza nella misura in cui ha la capacità di essere cura per l’altro». Da questa affermazione intensa e semplice si può partire per raccontare “Io sono cura”, il progetto estivo promosso dalla comunità Migrantesliberi, che ha coinvolto beneficiari dei servizi di accoglienza, le loro famiglie, operatori e volontari. Tutti insieme, senza distinzioni, come si fa in una comunità che cresce davvero. La conclusione simbolica è arrivata giovedì 1° agosto in piazza Catuma, con un flash mob che non ha solo “occupato” lo spazio urbano ma lo ha restituito al suo significato più autentico: quello di essere agorà, luogo d’incontro, di visibilità, di legami. Il messaggio è stato chiaro: integrazione, cura, umanità. Non uno slogan, ma un invito ad abitare la relazione con l’altro in modo radicale, vivo, incarnato.  

“Io sono pace” non è solo il nome di un progetto. È una dichiarazione, un invito, una necessità. È la consapevolezza che non ci si salva da soli, che ogni essere umano, al di là di origini, storie, errori, ferite, ha bisogno dell’altro per essere pienamente se stesso. È da questa consapevolezza che è nato il progetto estivo promosso dalla comunità Migrantesliberi, in un’esperienza condivisa fatta di relazioni autentiche, di tempo donato, di ascolto. Un’esperienza che ha dato corpo e voce, attraverso il flsh mob, a ciò che spesso resta invisibile: il dolore dell’esclusione, il peso del giudizio, la violenza delle parole che feriscono. In mezzo alla piazza una rete conteneva biglietti con frasi terribili: “non valgo”, “puzzi”, “non ce la farai mai”, “stai lontano da noi”. Frasi che non sono solo offese, ma ferite interiori che molti portano dentro, soprattutto chi è stato costretto a lasciare la propria casa, chi ha affrontato il mare, chi si è visto negare un nome, un volto, una dignità. Poi la scena: Shomail, giovane mediatore culturale, ha vestito i panni simbolici di chi viene deriso, rifiutato, umiliato. La sua figura è stata intrappolata nella rete dell’indifferenza e del disprezzo, mentre intorno a lui si consumava il gioco crudele del giudizio collettivo.

Ma il momento più forte arriva quando la scena si ribalta: le maschere cadono, l’umanità vera avanza, lo guarda, lo accoglie, lo libera. La rete cade. E in quel gesto, semplice e teatrale, si racchiude un senso profondo: nessuno si salva da solo. Tutti possiamo finire in quella rete. Tutti abbiamo bisogno di essere liberati. E tutti abbiamo la possibilità di diventare mani che liberano. Questo è “Io sono pace” declinato altresì a “io sono cura”: il superamento delle etichette, la forza dell’incontro, la scelta coraggiosa di vivere relazioni che non si limitano all’assistenza, ma si fondano sulla reciprocità. È un progetto che non si accontenta di educare all’accoglienza, ma vuole generare consapevolezza, responsabilità, visione.

Perché, come dice Papa Francesco, “la cura dell’altro non è un’idea astratta. È un impegno concreto e quotidiano. È vicinanza, servizio, compassione”. Ed è anche una sfida: quella di spogliarsi dalle maschere, uscire dai ruoli, ammettere la propria fragilità per riconoscersi umani, nella stessa condizione di bisogno, di sogno, di speranza. “Io sono pace” non è un evento isolato, ma un seme. Un seme che interroga la città, la scuote, la richiama alla sua parte migliore. È un appello a riscoprire la cura come fondamento della convivenza civile, come atto politico e spirituale. Non c’è futuro senza cura. Non c’è civiltà senza empatia. E non c’è umanità senza relazione. Chi ha partecipato all’evento, chi ha guardato negli occhi quel ragazzo nella rete, chi ha visto quella rete dissolversi nel gesto di accoglienza, ha assistito a qualcosa di più di una performance. Ha visto un segno, un frammento di quel mosaico che tutti possiamo comporre, un giorno dopo l’altro, se impariamo davvero a prenderci cura gli uni degli altri. Non per dovere, ma per desiderio. Perché “ci si realizza solo nella misura in cui si è cura per l’altro”. E questa, oggi più che mai, è l’unica rivoluzione possibile.